Stefania Ercolani (Siae): “Soundreef in store non è un’alternativa low cost a siae – Seconda Parte

Stefania Ercolani (Siae): “Soundreef in store non è un’alternativa low cost a siae – Seconda Parte

[Leggi la prima parte]
Ci sono problemi specifici per quel che riguarda il servizio in – store di Soundreef?

“Soundreef ha iniziato ad operare proprio in questo modo. La qualità della musica che questa società diffonde è solo una parte del problema. Chi va a proporre i suoi servizi parte dai costi SIAE ed SCF e abbassa il prezzo in modo notevole. Sono loro per primi a non credere nel valore della loro musica. Non ha il minimo senso affermare che chi utilizza Soundreef spende il 50% in meno, se il prodotto è totalmente differente… Veniamo da un momento di grave crisi. Chi cerca di abbassare i propri costi fa benissimo. Ma chi dice di vendere lo stesso prodotto di SIAE al 50% fa concorrenza sleale. Purtroppo anche molti media non sono esenti da colpe, in questo senso. Continuano a veicolare il messaggio di Soundreef, che si pone come ‘alternativa’ a SIAE. Nei fatti il servizio In Store di Soundreef è una specie di low – low cost della musica d’ambiente, ma non della stessa musica”.

Ryan Air è un vettore low cost e porta comunque a destinazione…

“Certo, il suo lavoro lo fa bene. Non mi dà la colazione, mi fa fare la fila e fa pagare supplementi per ogni elemento ‘addizionale’: chiunque è in grado di capire la differenza tra una linea aerea ‘tradizionale’ ed un servizio di base di una compagnia low cost. Il problema è che Soundreef, se fosse una compagnia aerea, avrebbe problemi a farli volare, i suoi aerei. Ad esempio, il modo in cui presenta il suo catalogo sul sito è fuorviante. Offre anche opere che non controlla completamente, senza specificarlo. Ma soprattutto, io vedo la cosa dal punto di vista dei musicisti, visto che Soundreef offre spesso direttamente ai clienti il servizio di musica in – store: io autore come faccio a capire la logica di chi compila le sue playlist? Se si leggono i commenti nel sito di Soundreef stessa questo dubbio comincia a farsi strada tra i suoi autori. SIAE tutela tutti, non crea playlist, lascia fare questo lavoro a chi come AMP fa il music provider”.

A proposito di playlist, si può diffondere Spotify, nella sua versione gratuita o in quella a pagamento senza pubblicità in un negozio?

“No, non è possibile diffondere Spotify, anche nella sua versione Premium (quella che costa 9.90 euro al mese, NDR). Contrattualmente, l’uso di questa piattaforma è, infatti, personale. La musica si può ascoltare in casa, non in uno spazio pubblico o in un esercizio commerciale. Chi lo fa viola le condizioni del contratto. Spotify infatti nelle FAQ avverte i suoi abbonati che il suo servizio è per uso privato. Nessuno di noi legge tutte le istruzioni di ogni cosa, ma in questo caso è un’avvertenza importante”.

Utilizzare Spotify in negozio è un po’ come diffondere la radio senza voler pagare a SIAE ed SCF i diritti di diffusione?

“In realtà non proprio. I diritti di diffusione vanno pagati comunque. Facciamo un esempio più calzante: se io voglio far vedere la tv nel mio ristorante non pago più il canone personale, pago il canone RAI d’abbonamento per i pubblici esercizi (lo stesso per la diffusione nei locali pubblici delle partite di calcio trasmesse da Sky NDR). Chi decide di diffondere Spotify o un servizio analogo nel suo negozio o nel suo bar compie un atto illecito nei confronti di Spotify che non ha l’autorizzazione a fornire musica ad esercizi commerciali. Compie un illecito contrattuale. A SIAE deve in ogni caso i diritti di pubblica esecuzione. Sto semplificando questioni complesse dal punto di vista legale, ma l’illecito sostanzialmente resta”.

La forza di SIAE è comunque la sua struttura sul territorio, in grado di compiere reali controlli sul territorio. Ovvero, può informare chi, magari in buona fede, sta commettendo un illecito.

“Certo, questo tipo di attività i nostri mandatari la fanno sempre. E la stessa Spotify, tra l’altro, si è resa conto di quanto sia importante avere servizi dedicati alle imprese. Ha aperto Soundtrack Your Brand, un sorta di spin off che offre nei fatti servizi di Music Provider. E quindi proprio Spotify ha oggi tutto l’interesse a far sì che i suoi clienti business usino questo servizio e non quello dedicato all’uso personale”.

Come vede il futuro multimediale della musica? La discografia sembra rinata dopo decenni di crisi, e oggi chi è bravo di opportunità sembra averne non poche.

“Il futuro della musica è senz’altro online ma potrebbe andare in due direzioni molto diverse. Me ne accorgo perché seguo le vicende legislative a livello europeo. Potrebbe concretizzarsi una forte omologazione per lo strapotere di giganti come Google, Apple e forse pure Spotify, con tutte le distinzioni del caso, perché Spotify si occupa solo di musica. Oppure, soprattutto in Europa, saremo bravi a rendere effettivo il valore di tutte le diversità musicali. Dobbiamo essere bravi nello stabilire regole che permettano lo sviluppo della diversità culturale anche nella musica. Già oggi lo vediamo bene nell’audiovisivo. Le quote riservate ad opere europee valgono per le tv, non certo per Netflix, che oggi per assurdo potrebbe operare in Europa senza diffondere una singola opera europea. La questione riguarda anche la musica, perché dell’audiovisivo fanno parte anche le colonne sonore”.

E per quel che riguarda questioni più specificamente musicali, come sarà il futuro?

“C’è purtroppo il grave problema del value gap, ovvero il divario di valore che nel tempo si è determinato a favore dei prestatori di servizi a svantaggio dei titolari dei diritti d’autore. Le piattaforme UGC (user generated content, NDR) – come YouTube – ricavano dalla diffusione dei contenuti più di quanto facciano i servizi online che hanno simili contenuti come loro core business. Sfruttano i contenuti caricati dagli utenti, la musica ed altri contenuti creativi. Chi crea i contenuti basa le royalties solo su una minima parte degli utili generati. Non è quindi giusto riversare solo sugli utenti ogni responsabilità legale. E non è tutto: uno stream su Spotify vale all’incirca 10 volte quanto vale uno stream su YouTube, per capirsi. Non posso comunicare i termini dei diversi contratti, che sono coperti da accordi di riservatezza , ma la sproporzione è questa. Ovviamente il lato economico conta, perché quanto incassato da SIAE viene distribuito anche alle utilizzazioni della long tail, quelle che in economia si definirebbero ‘marginali’ e quindi contribuisce allo sviluppo della diversità culturale e musicale. Dobbiamo lavorare per un futuro in cui sia possibile avere l’occasione di ascoltare anche artisti locali e musica diversa da quella mainstream, che è popolare dalla Svezia all’Australia”.